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Trans12ione
Un soffio di vento.
Due interferenze.
Due interferenze.
La voce di un bambino giunse alle sue orecchie, spendendo poche parole in una lingua sconosciuta, solo per lui. Una sola voce.
Un soffio di vento.
Due interferenze.
Silenzio.


La creatura aprì gli occhi, fissando col suo vitreo pallore la distesa marina che si estendeva a perdita d'occhio verso l'orizzonte, divorando il cielo con avidità tipica solo dell'oceano.
Il colorito smorto che sembrava fondere il suo mondo con il resto della volta celeste era in pesante disaccordo con quella musica lontana eppure prossima al suo nucleo.
Com'era possibile che vi fosse della musica all'interno di lui? Come potevano esistere ancora delle note quando tutto in quel mondo era stato cancellato, lasciando solo il cielo cinerino e la bonaccia marina del medesimo, insignificante colore.
E quella voce infantile… l'aveva solo immaginata? Anche se davvero fosse stato solo un sogno a svegliarlo da quel suo eterno letargo, anche se fosse stata solo una luce immaginativa a ricreare quella musica dentro di sé… beh, anche in quel caso sarebbe stato un evento al di fuori dell'ordinario.
Aveva persino dimenticato che cosa volesse dire sognare, quella parola era stata cancellata dalla sua memoria tempo prima, lasciando solo il pallido file remoto che aveva causato il sogno un tempo, quando ancora poteva muoversi e non necessitava di ancorarsi a quel lurido pezzo di mondo morente.
La musica lontano continuava a ripetersi, con un semplice ritornello ossessivo, omologato a quel mondo uguale e grigio. Però quella era musica, era diversa, non poteva di certo appartenere alla desolazione di quel grigio oceano o alle stelle di fuliggine che punteggiavano il cielo. No… non poteva essere posseduto nemmeno dal suo mastodontico corpo scuro, stagliato contro quel piattume acquoso sul quale non rifletteva neanche la sua indegna ombra meccanica.
Eppure… eppure quel suono simile ad un grammofono rotto e incantato pareva proprio provenire da dentro. Fuori vi era solo silenzio, rotto soltanto dal placido ondeggiare di quell'universo rovinoso sulle ultime acque senza vita capaci di portarlo alla deriva fino all'infinito. Paradossale che il liquido che un tempo era in grado di donare l'esistenza all'intera terra fosse diventato il simbolo dell'acerbo porro che era rimasto al posto delle verdi vallate e dei campi di grano.
Una pustola nerastra attorno al grigio… ecco che cosa rappresentava, e poteva forse un bubbone come lui aspirare a produrre quel suono, che seppur assillante e ossessivo, avrebbe significato un cambiamento in quel preciso istante del tempo, una corrotta macchina in grado di ingannare la morte. Così appariva.
Una vestigia del mondo antico come lui poteva aspirare a creare qualcosa di tanto meraviglioso come una melodia. Consolante nella sua inutilità.
La musica cambiò e fece di nuovo sussultare quel colosso nero, ricoperto di ruggine fisica e mentale. Perché quel grammofono aveva disturbato il suo sonno millenario? Quel mondo era divenuto ormai privo di senso alcuno da molto tempo, eppure era certo che quella sequenza di suoni non fosse dettata dalla casualità caotica che aveva sprofondato la sua razza nell'oscurità. C'era uno schema a guidare quella melodia, uno schema interno che solo lui poteva conoscere, ma capite bene che dopo eoni passati a dormire, persino una macchina reputata perfetta avrebbe avuto qualche scalpicciare impacciato al ritrovarsi sveglia e funzionante, quando avrebbe dovuto affondare nell'oceano grigio assieme a tutto il resto della tecnologia.
Senza badare più alla cenere universale e al vento gelido di quell'esterno, rivolse i suoi bianchi occhietti meccanici dentro di sé. Sbatterono un paio di volte, con un rumorino leggero, come il "click" di una macchina fotografica vecchio stampo, come non se ne sarebbero mai più viste in quell'era cupa. La lattea infinità di quelle sfere lucide si dissolse in un nero profondo, mentre abbandonava la fredda negazione della vita, trasportandosi nell'altrettanto gelato nucleo dei suoi più profondi circuiti.

Nega21one
Il suo stesso "cuore" era nero, illuminato fiocamente dalla luce dei migliaia di monitor che circondavano ciò che una volta era stato suo. Si era dimenticato com'era tornare nel proprio scheletro fragile e divenuto bluastro a causa delle radiazioni che emanavano la moltitudine di computer presenti all'interno del  colosso. Non percepiva nulla, nemmeno i fili che gli penetravano il cranio, permettendo al cervello di continuare a sostenere quella massa oscura, radicata nella terra morente di quel mondo. In realtà non era davvero all'interno del proprio corpo, e forse quello non era nemmeno il suo corpo. Si era dimenticato perfino di essere stato fatto di carne, un tempo. Quello scheletro era troppo piccolo e troppo fragile per essere veramente il suo, forse quello di una donna, per non pensare al peggio.
Quando la luce era esplosa, quando quella fonte di energia aveva dato sfogo alle forze tremende e vendicative della natura, solo un gruppo di eletti era riuscito a sopravvivere alla morte certa, condannati ad un'immortalità nella distruzione.
Si… ora ricordava. Non era difficile rimembrare la falcidiante luce e nemmeno i successivi due secoli di speranze meccaniche. Poi anche le speranze se ne erano andate, lasciando posto alla mera tecnologia e ai procedimenti logici che ne conseguivano.
In quel momento sarebbe stato pronto a scommettere che se avesse potuto osservare la nuova conformazione del cervello, avrebbe trovato una corteccia frontale spropositatamente enorme, rispetto alle zone motorie ed emotive, totalmente marcie e corrose dalla logica fredda della macchina. Il suo cervello era morto, da tempo ormai e con esso erano morte le emozioni, le sensazioni, le percezioni e la personalità.
I monitor segnavano chiaramente i risultati delle sue ricerche millenarie. Alcuni erano scheggiati, altri riflettevano un'inquietante e malata luce verdognola, invece che l'altrettanto esasperante azzurro disinfettato e pudico. Su tutta quella marmaglia di luci, nessuna esclusa, lampeggiava una parola di bianco accecante: "denial".
Forse non avevano voluto inserire la possibilità di una parola "abort" o peggio ancora "death", sarebbero state troppo dure da veder lampeggiare in quel modo su migliaia di monitor, come uno scricchiolare continuo ed inevitabile o una nota fastidiosa nell'orecchio sinistro.
Quanto una negazione fosse meglio di un aborto o di una morte ormai non aveva molto più senso per esso, ma era certo che ci fosse stato un senso dietro a tutta quella pignoleria sulle parole. Dovevano aver intuito molto presto il decadimento dell'energia in quel pianto disperato e orrendo; avevano avuto tempo per preparare la loro condanna nei minimi dettagli.
In quel momento si rese conto di quanto non fosse importante la frase su quegli schermi. Erano semplicemente una marea di rifiuti, una stagione intera di negazioni davanti a quei suoi occhi meccanici. Improvvisamente gli parve ancor più desolante della distesa al di fuori di sé, tanto che decise di abbandonare quel luogo nefasto, senza nemmeno voltarsi, tornando sui suoi passi, ricadendo nel suo stato comatoso perenne, quel letargo infinito a cui era stato condannato.
Ma poi… poi la musica tornò, irregolare rispetto a prima; la voce, una nuova voce profonda attorniata da dei suoni tremolanti, qualcosa che non aveva mai sentito prima di allora. Era vicino, lo percepiva chiaramente, e quei suoni sembravano chiamarlo più a fondo, trascinandolo nell'oscurità più tetra dei suoi circuiti.
Scese in profondità, ignorando le negazioni che incontrava nella sua discesa verso quell'Ade di demoniaci ingranaggi.
La musica si faceva sempre più intensa, così come le sensazioni che aveva cominciato ad accarezzare dalla superficie. Poteva percepire il vento gelido dell'esterno da quella profondità… com'era possibile?
I monitor dei computer gli scorrevano davanti come pagine di un libro già scritto, uno di quei tomi da scaffale alto, che nessuno mai comprerà, perché tanto orrenda la copertina quanto la conclusione: scontata e ridondante.
"Denial", "denial", "denial" e poi uno schermo differente.
Frenò la sua discesa, percependo chiaramente che ciò che stava cercando di afferrare si trovava proprio in quel punto, sepolto dalla stagione di negazioni, circondato da altri monitor identici, tutti omologati fra di loro, se non per quell'elemento d'interruzione, la pecora nera, il falcidiante sapore dell'originalità e della scostante follia attorno a quelle sequenze teatrali già scritte.
Lo schermo era colmo di numeri, una sequenza apparentemente casuale di "2" e di "1" che continuava ad aumentare, facendo scorrere le precedenti stringhe verso l'alto, calcolandole l'integrità completa, generando nuove parti e cancellando quelle superflue come uno scolaro attento. Sì… la musica veniva da lì, poteva sentirlo perfettamente e quando fu vicino abbastanza al computer da poterla sentire nella sua interezza e magnificenza si accorse che in realtà non c'era alcuna musica, alcun rumore di fondo, alcuna interferenza.
La verità era che stava cantando e nemmeno sapeva che cosa volesse dire cantare. La musica se n'era andata, lasciandolo solo con la realtà con la quale fare a pugni, pugni che non possedeva più da tempo; il colosso aveva solo artigli fermi e ricoperti di polvere cosmica.
Osservò il monitor e si ritrovò incuriosito dallo stesso. Non avrebbe dovuto essere tanto interessato a quel computer, non aveva senso che provasse emozioni perché il suo cervello era morto. Ma fu allora che si accorse dei filamenti che partivano dal sistema operativo centrale di quell'aggeggio dentro di lui; una serie disordinata di cavi, che scavalcava tutti gli altri monitor, passando in mezzo ad una sorta di corridoio nel nulla che i computer avevano liberato apposta per quel groviglio sconnesso, come se avesse rappresentato per loro una sorta di imperatore a cui lasciare spazio e vuoto. Quel rovo elettrico si disperdeva per dimensioni a lui sconosciute, innalzandosi al di sopra di quell'infinità di schermi e congiungendosi con quella che sembrava essere una sorta di tubolare gigante, illuminato di una luce verdina fosforescente; ecco da dove venivano probabilmente quei riflessi su alcuni degli schermi. Il tubolare era chiuso alle estremità da coperchi robotici, che scandivano una sorta di ritmo inudibile tramite le spie che si illuminavano a tempo su di essi. Si accorse che tenevano il tempo con la musica che aveva in testa, esatto… in testa. Da quanto tempo non usava quel termine per definire il suo pensiero.
Quel marchingegno era sospeso nel nulla, come tutto il resto d'altra parte, ma anche la superficie vetrata del tubolare era ricoperta di "2" e di "1" disposti in sequenze miste e dentro quella parete vetrata, circondata come in un amorevole culla, vi era una strana creaturina, la più strana che avesse mai viso in tutta la sua secolare esistenza.
Galleggiava come in un liquido, raggomitolata su se stessa come una minuta pallina di luce rosata. Sembrava avere la pelle strana, morbida, fatta di carne. Qualche ciuffo di pelo biondo figurava solo sull'enorme testona, se davvero quella poteva essere considerata la sua testa. Ma la cosa che più lo sorprese non fu la stranezza di quell'essere.
Ma bensì il fatto che fosse vivo.

Predi2i0ne
I numeri continuavano a scorrere sia sul monitor che sul vetro cilindrico dentro il quale stava rinchiuso quell'essere, processando attimi di vita e costruendo chissà cosa in quella sorta di embrione artificiale.
Quella creatura lo aveva scioccato, riportando dentro di lui un'emozione che sembrava essere ormai persa nell'oblio del sé. Fra tutti i computer processanti milioni di miliardi di possibili numerazioni, era riuscito paradossalmente nella sua impresa solo il sistema che aveva contratto un virus. Quel terminale aveva costruito schemi utilizzando solo sequenze di "2" e di "1", eppure era riuscito dove la moltitudine aveva fallito. Per la prima volta nella sua esistenza, la mela bacata aveva dato il frutto migliore, una preziosa luce in quell'oscurità impotente. In quegli istanti riusciva persino a vederne la motivazione; la presenza di quell'essere aveva risvegliato il suo apatico entusiasmo e la vivace intelligenza che l'aveva contraddistinto nei suoi anni di vera vita, prima della fine dei tempi. Concentrandosi avrebbe potuto perfino cominciare a ricordare, ma decise di non essere egoista e di dedicare quei preziosi bagliori di coscienza emotiva all'essere in letargo nell'incubatrice tubolare.
Certo… sarebbe stato tanto ovvio a chiunque, tranne ad una macchina. Il virus aveva salvato la vita, costruendo la vita attorno ai due numeri fondamentali. Non serviva nessun altro numero, non serviva la negazione, lo "0", ne tutti i derivati dei due numeri fondamentali. Era tanto banale che vi erano voluti millenni perché una macchina lo potesse comprendere, contraendo quel virus.
Non poteva esserci nulla senza la presenza; la presenza dell'esserci doveva giustificare il tutto, perché il tutto non poteva esistere senza il singolo, l'uno, il primordiale creatore vero della moltitudine e la moltitudine stessa. Semplicemente "1", l'inizio di tutta la vita e il parto primo che avrebbe dato il via alla corsa verso l'evoluzione. E poi… e poi la prima moltitudine, perché la presenza non può portare da sola ciò che vi è necessario alla vita per vivere.
La macchina comprendeva perché nessuno di quei terminali avrebbe mai potuto dare una risposta se non quello infettato dal virus; ora lo capiva perfettamente, anche se lo aveva avuto davanti agli occhi per millenni. Era matematico: la macchina non ha bisogno di interrogarsi sull'esistenza, in quanto esiste solo come unità di matrice a funzione. Esegue, non esiste. La macchina non ha bisogno di compagnia, di collaborazione per eccellere e per vivere.
Ma la vera vita… la vera esistenza necessitava non solo di una presenza, ma anche di una comunione fra presenze. Con la tecnologia non sarebbe mai riuscito ad arrivare al "2", poiché non conosceva nemmeno le possibilità del numero "1".
Presenza e Comunione. Le due prime e vere fondatrici della natura del vivente. Nessuno avrebbe mai potuto combattere da solo la battaglia per la sopravvivenza, se non una macchina. Ma quella creaturina non era una macchina.
Sorrise nel pensiero, trovando un'emozione che sicuramente proveniva da quel minuscolo esserino rinchiuso nel tubolare, poi la sua mente deviò di nuovo verso il monitor del terminale e fu allora che si accorse di qualcosa che aveva l'incredibile. Erano passati esattamente duemila e dodici anni dall'anno "0" in cui la sua razza aveva cessato di esistere: per la precisione quello era il ventunesimo giorno, del dodicesimo mese del duemila e dodicesimo anno su quel mondo contaminato dalla morte. La cosa che lo scioccò completamente fu che a distanza di duemila e dodici anni, quel giorno per la sua razza aveva significato la fine.
Così come loro si erano estinti in quello stesso giorno, un'altra razza era nata a distanza dello stesso arco di tempo che avevano impiegato per completare il loro ciclo di esistenza.
Riportando l'attenzione sulle cifre in costante aumento sullo schermo, comprese la sottile alchimia di quegli istanti. I numeri che il virus aveva creato, apparentemente casuali, non lo erano affatto. Vi era uno schema perfetto all'interno di essi, che continuava a ripetersi senza interruzione: "122112".
Ma certo… il ventunesimo giorno del dodicesimo mese del dodicesimo anno… più duemila anni.
Quella sequenza rappresentava la formula del vivere e del morire. Non sarebbe potuta esistere diversamente, non con altri numeri, né con altri segni o posizioni.
Tre volte la Presenza.
Tre volte la Comunione.
Un soffio di vento.
Due interferenze.
Due interferenze.
La voce di un bambino giunse alle sue orecchie, spendendo poche parole in una lingua sconosciuta, solo per lui. Una sola voce.
Un soffio di vento.
Due interferenze.
Silenzio.
C'era tutto in quella sequenza, persino il perché del susseguirsi di catastrofe e creazione nella data del ventunesimo giorno del dodicesimo mese del duemila e dodicesimo anno. Probabilmente doveva essere quell'imperfezione nel codice: "122112" invece di "121212".
Era sicuro che quel piccolo particolare portasse al susseguirsi di data in data di catastrofi e di rinascite, come una sorta di ciclo infinito, senza mai fine. Forse era stato creato così apposta da chissà quale entità superiore, in grado di dominare la matrice prima del mondo, forse si era generato spontaneamente, avvertendo in ogni caso il bisogno di resettare la propria memoria ogni volta raggiunta la fatidica data. Si… doveva essere proprio così. Quel "21" non era un errore, ma la componente mediana della vita e della morte. Se il codice fosse stato perfetto, non ci sarebbe stata la morte, ma senza di essa non avrebbe nemmeno potuto nascere la vita. Non poteva esistere un sé perfetto, un immortale saggio, onnisciente e onnipresente in ogni tempo e ogni luogo.
Persino quella piccola creatura in incubazione non era perfetta e avrebbe dato il via ad una razza che probabilmente sarebbe stata ben lontana dalla perfezione. Ma in quella sequenza sballata che aveva condiviso con lui e che avrebbe condiviso col resto della sua stirpe sarebbe stato unico ed inimitabile, pronto a dominare l'intero universo per i prossimi duemila e dodici anni, fino ad un nuovo cambiamento, una nuova catastrofe… un nuovo rinnovamento.
Certo il suo sviluppo non era ancora completo, la matrice stava ancora lavorando per generare quei numeri il più velocemente possibile; la creatura era ancora incapace di sentire e di spiccicare parola, era muta e sorda, senza alcuna possibilità di comunicare.
Quando riportò l'attenzione mentale sull'incubatrice ebbe un sussulto improvviso.
L'essere aveva aperto gli occhi e lo stava fissando come se fosse fisicamente presente davanti a lui.

In12io
La creatura l'aveva paralizzato col suo sguardo vitale, fissato e puntato contro di lui, come se volesse indagarlo, redarguirlo dei suoi peccati, facendogli scontare la sua redenzione robotica. I suoi occhi erano azzurri, ma non di quell'azzurro malato che ricopriva i monitor dei terminali, sfigurando di fronte al vero significato della parola azzurro. Non aveva mai avuto l'occasione di percepire quel tipo di azzurro, capace di sfondare persino il verdino pus del tubolare di vetro che lo rinchiudeva nella sua prigione dorata.
L'esserino lo fissava, scrutandogli come dentro, in quell'infinità che altro non era che il suo corpo meccanico.
Alzò un braccino, o almeno così parve fare alla macchina. Con una potenza comunicativa fuori dal comune sembrò voler offrire quella sua minuta mano, innalzandola lievemente e cercando di afferrare la sua essenza, scontrando i palmi grassocci col vetro della sua incubatrice. Non aveva idea che quella razza potesse avere un simile potere.
Quell'essere era sordo, e anche muto… non avrebbe potuto dire una parola e neanche ascoltare alcun suono, eppure era riuscito con un solo gesto dei suoi deboli muscoli non ancora formati a toccare dentro ai sentimenti sepolti di quella tecnologia fatta un tempo di carne e nervi. Con una minuta flessione delle sue cinque ditina aveva detto tutto, senza dover usare altri mezzi.
Rimase sbalordito. La nuova razza avrebbe avuto per sé la capacità di una lingua naturale che non sarebbe stata mai fraintesa. Ne era praticamente certo di questo, così com'era certo del fatto che nessuno di loro, se non gli esseri ancora "immaturi" avrebbe saputo usarla con cognizione di causa e con saggezza. Sicuramente la razza avrebbe inventato una lingua e dalla lingua sarebbero giunte le incomprensioni, i giochi di parole, gli inganni e le vicissitudini che probabilmente avrebbero portato alla fine della stirpe nell'anno designato dal codice di quella matrice. Evidentemente c'era un modo per sfuggire alla fine certa, forse proprio quello di utilizzare quella lingua così semplice, fatta di gesti comuni e universali, completa di un'empatia tale da ridurre qualsiasi linguaggio verbale ad uno scarafaggio fra i più resistenti e infidi. In quel solo gesto aveva visto il destino infausto della loro dinastia, non aveva idea di cos'altro fosse in grado di comunicare quel piccolo ancora incompleto.
Un nuovo gesto con l'arto, un gesto che risvegliò in lui una consapevolezza tanto forte, quanto rapida. L'esserino indicava qualcosa dietro di lui, qualcosa che necessitava di essere visto.
Senza esitazione traslò la sua attenzione mentale verso il punto comunicato dalla lingua naturale dell'embrione, e quel che vide risvegliò in lui un'emozione talmente primordiale dall'essere capace di travolgerlo in tutta la sua annichilente forza: il terrore.
Aveva evitato di osservare dietro di sé, mentre attraversava l'infinita parete di negazioni che lo avevano condotto in quel punto focale del suo interno, forse perché in lui c'era una traccia intangibile di consapevolezza su ciò che avrebbe visto: davanti a lui si stagliavano filamenti scuri e malati; ognuno di essi dipartiva dai terminali in panne, e concludeva la sua corsa in un dispositivo tubolare simile a quello in cui si trovava l'esemplare della nuova razza. Ma dentro di essi… beh, non c'era nulla di percepibile. Corpi deformati e oscurità latente si mischiavano, formando mostri immaginari e incubi tormentati che gli avrebbero impedito di riprendere il suo letargo per l'eternità. Milioni di migliaia di corpi orrendi, deturpati dalla presenza di troppe informazioni, muniti di chissà quale aberrante ed orrida tenebra, destinati all'oblio perenne, in quella dimensione di perdizione. Urla orrende gli riempirono l'udito, prima che la consapevolezza che la sua redenzione fosse iniziata lo cogliesse nel profondo del suo animo, terrorizzandolo come non mai.
Vide l'esterno, pur non riuscendo a tornarci fisicamente; vide una sottile increspatura nell'orizzonte, che si faceva sempre più visibile, fino al fargli comprendere la natura della stessa. Un'onda gigantesca, monumentale e alta quanto il cielo stesso, diretta verso il colosso a tutta velocità, pronta ad inghiottire definitivamente il loro mondo, seppellendolo al di sotto delle acque più cupe, liberandolo da quell'eterna fuliggine, per fare spazio alla nuova razza.
Finalmente il quadro era completo. Di lì a momenti l'onda lo avrebbe portato via per sempre, distogliendolo dal suo dolore e regalandogli il riposo eterno.
Comprese tutto quello che avrebbe dovuto fare.
Si voltò verso l'embrione, osservando l'ultima volta quegli stupendi occhioni azzurrini e chiedendosi se per caso quell'onda non fosse un dono di quell'esserino, un premio per aver vegliato su di lui per così tanto tempo.
Avrebbe voluto chiederglielo… avrebbe voluto vedere la loro razza nascere, crescere e morire esattamente come la sua, ma sapeva che non avrebbe mai sopportato a lungo quelle immagini orrende dietro di lui. L'oceano lo chiamava a sé, come aveva chiamato a sé i suoi fratelli molto tempo prima.
Lanciò un ultimo sguardo verso l'embrione, prima di farlo sprofondare di nuovo in un sonno ristoratore, calandolo nelle profondità del suo corpo, fin sotto la superficie del mare, oltre la terra, sepolto dove l'onda non avrebbe potuto portarlo via, fino a quando non sarebbe stato pronto a dominare la sua nuova realtà.
Sentì rapidamente le sue sensazioni sparire, mentre l'esserino affondava nel terreno, così decise di fare un dono a quella creaturina che tanto gli aveva dato prima della fine.
Incise nella stessa terra il codice sacro che avrebbe rappresentato tutto: la nascita, la fine, la vita stessa. Lo impresse nella terra, davanti agli occhi azzurrini dell'embrione in modo che si stampasse nella sua testa e che potesse tramandarlo di generazione in generazione.
Forse… con la sua lingua naturale e con quella conoscenza, quell'essere avrebbe potuto sventare l'estinzione profetizzata dalla matrice e dominare per sempre l'universo sotto la saggia guida dei loro gesti incapaci di mentire… forse… oppure sarebbero sprofondati nell'oblio, esattamente com'era stato in passato per la sua stirpe.
Con gli ultimi barlumi di coscienza e d'emozione donò questo al piccolo, prima di venir trascinato di nuovo dalla sua razionalità in superficie, lasciando quel mondo fatto di incubi e oscurità, tornando nel ventre vuoto della loro terra malata.
Un "click" degli occhietti lattiginosi da parte del vestigio mastodontico, prima che un'onda ancor più gigantesca lo travolgesse, portandosi via l'ultimo membro della sua razza, e il segreto che aveva scoperto, prima di lasciarsi andare al riposo dei giusti.
Ed eccomi qua a presentare il nuovo pezzo, scritto per il concorso di :iconartescritta: chiamato "21-12-2012".
Ammetto che avrei voluto prendere un pò di tempo per valutare quanto il mio modo di scrivere si fosse spinto forse un pò troppo oltre le aspettative altrui, risultando incomprensibile ai più e quindi illeggibile a prescindere. Anche il tema non riusciva a stimolarmi abbastanza da poter buttare giù qualcosa di realmente utile alla causa. Sinceramente ero intenzionato a non partecipare a questo contest, fino a quando, ieri sera mi è capito casualmente di riascoltare l'album dei "Guilt Machine" che avevo usato per ispirarmi nello scrivere "Bobine di Menzogne".
Beh... come al solito la musica ha fatto il suo lavoro: giunto alla canzone "Season of Denial" mi sono accorto di quanto il piccolo intro stesse stimolando la mia immaginazione, dipingendo quella landa desolata della quale non voglio dirvi nulla, essendo presente largamente nel testo.
Ho ascoltato e riascoltato più volte i primi quarantacinque secondi di quel brano, lasciando che la mia mente fluisse, elaborando velocemente l'inizio di ciò che volevo scrivere. Mi sono gettato subito sul testo, per paura che l'ispirazione scemasse e piano piano ho costruito nuovamente, cominciando a giocare (letteralmente!) con la tematica e col significato della stessa. Il risultato non sta a me commentarlo.
Qualche parole sul testo? Come al solito preferirei non rovinare la lettura, ma posso dire che questo mio pezzo è ambientato nello stesso multiuniverso che ha ospitato "Bobine di Menzogne" ed è legato inevitabilmente ad esso, sebbene possa essere benissimo letto senza bisogno di guardarvi il suo precedessore. Non è né un prequel, né un sequel, ma rappresenta eventi a sè stanti.
Buona Lettura!

Creato ascoltando: "Season of Denial" dei Guilt Machine e "Robot Redemption" di Chris Haigh
© 2012 - 2024 RaphaelAngel
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ElectricLimeFloppy's avatar
Questo racconto trasuda transumanesimo da tutti i pori. E' stata una lettura intrigante, i dettagli con cui rendevi lo stato d'animo della macchina e gli eventi che gli capitavano rendono questa storia un piccolo gioiellino. Anche se penso che più che centrare il tema dell'apocalisse ha preso in pieno un tema molto più "scottante" che è il transumanesimo.